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Perché Gabbris

Radio Bluetu vuole richiamare la memoria di una delle radio locali che trasmettevano in modulazione di frequenza nel nostro territorio, a partire dal 1979: Radioblu. Non a caso il logo della piattaforma ricorda esplicitamente, nella forma, nel colore e nel carattere del testo, quella esperienza, volendo rappresentare anche un omaggio ad uno dei più grandi artisti polesani del nostro tempo, Gabbris Ferrari, che ne fu il generoso ideatore.
Abbiamo quindi pensato che la realizzazione del sito della radio potesse costituire anche un momento per ricordare questo grande artista polesano, che tanto ha dato al nostro territorio, divenendo un vero e proprio omaggio all’uomo di cultura che Gabbris è stato.
In questo contesto pubblichiamo a parte anche quanto Sergio Garbato, altro grande uomo di cultura del Polesine, ha dedicato a Gabbris in occasione della mostra “Gabbris, un’avventura artistica e umana” allestita a Palazzo Roverella da Fondazione Banca del Monte di Rovigo nel 2017.
Abbiamo deciso quindi di riprendere il logo della vecchia radio e rielaborarlo, ma mantenendo il segno nitido che lo caratterizzava anche 40 anni fa. Inoltre abbiamo pensato di utilizzare alcune delle moltissime opere pittoriche di Gabbris come sfondo delle pagine del nostro sito.
Ringraziamo a tale riguardo la Fondazione Banca del Monte di Rovigo, che ci ha autorizzato all’utilizzo di tali immagini, relative ad opere che sono nella sua disponibilità.

Foto di Luca Biasioli

Gabbris: dalla pittura al teatro e ritorno

di Sergio Garbato

Gabbris aveva fatto irruzione presto nelle nostre vite, quando eravamo ancora adolescenti e lui già al tempo dei suoi vent’anni era affascinato dalla poesia. Oh, non quella scritta, ma quella pronunciata e recitata e proprio nelle pieghe del Lamento per la morte di Ignazio di Federico Garcia Lorca, detto con voce piana e dolente e lunghe pause, accanto a un pianoforte, così l’abbiamo incontrato per la prima volta.

La pittura si era presto impadronita di lui, lusingandolo e tormentandolo tra forma e colore, segno e astrazione. Difficile scegliere una strada precisa e giungere a uno stile definito. Gabbris era diventato pittore, quando era ancora poco più di un ragazzo, affascinato dalle lezioni e dalle opere di Angelo Prudenziato, in cui aveva voluto riconoscere, se non l’unico, il più importante dei suoi maestri. Da Prudenziato aveva, forse, appreso che la pittura è anche qualcosa che ha a che fare con tutto ciò che è fisico e tangibile, che le forme sono le cose e che tutto bisogna toccare e sperimentare e l’aveva spesso seguito, di notte, a scortecciare gli alberi per trovare nuovi supporti. E presto aveva imparato che la pittura (e l’arte, più in generale) è anche esorcismo, capacità di esprimere che va oltre il tangibile, appunto, intuizione e avvicinamento progressivo, memoria incompiuta che continua nel tempo.

Tanti i maestri e gli innamoramenti, ma tanti anche gli amici e i compagni di strada. Ad apertura degli anni Sessanta, in maniera casuale e quasi naturale, si era costituito un primo gruppo di giovani, che coltivavano musica e scrittura e, appunto, pittura. Tra tutti, c’era Gianpaolo Berto, capace già allora di siglare modi e fantasie, coinvolgendo addirittura Tono Zancanaro e Tommaso Foster, ma anche il poeta floricoltore Livio Rizzi, che gli aveva aperto le porte della sua Piccola Galleria del Polesine, frequentata da artisti e scrittori prestigiosi. Proprio da una sorprendente mostra nella saletta sul retro

del negozio di fiori, dove aveva portato i suoi quadri, uno alla volta da casa, Gianpaolo Berto aveva preso il volo per Roma sotto l’ala protettiva di Carlo Levi. Gabbris era rimasto a Rovigo, scontando fino in fondo meschinità e provincialismi, senza indugio affiancandosi ad artisti di sicuro rilievo come lo stesso Angelo Prudenziato, Edoardo Chendi, Vittorio Milan, Estevan Fioravanti e quello straordinario scultore che era Virgilio Milani, che, qualche anno dopo, nella frequentazione del giovane e geniale Paolo Gioli, avrebbe rinnovato i suoi moduli espressivi in maniera quasi radicale.

E c’erano i compagni di strada come Osvaldo Forno, Roberto Reali e Agostino Melloni, tutti in guerra contro quei borghesi che, paradossalmente, erano i soli in grado di apprezzare (lo si sarebbe capito molto tempo dopo), anche in maniera tangibile, disegni e pitture, poesie e prose liriche. Risale a quei giorni una Crocifissione di grande tensione giocata specialmente sui neri e su forme che emergevano dal buio senza mai precisarsi fino in fondo, quasi in gara con Giampaolo Berto che puntava, allora, sui rossi che accendevano tragicamente forme tenebrose. Parallelamente aveva completato gli studi irregolari.

La progressiva esplicitazione di uno stile personale, che riprendeva la lezione delle avanguardie storiche, era arrivata con la avventurosa apertura di una galleria d’arte insieme a un artista inquieto come Osvaldo Forno: l’idea di fondo era quella di mostrare quello che stava succedendo nell’arte di quegli anni. E in quei locali a pochi metri dalla chiesa di San Francesco, tra il 1969 e il 1970, erano convenuti critici come Giorgio Di Genova e artisti affermati. Da qui, una straordinaria serie di mostre, come quelle di Renzo Vespignani, Carlos Revilla, Liliana Petrovic, Robert Mason, Brian Darnstone, Renzo Zampirollo. Ed era un accavallarsi di esposizioni e frequentazioni di maestri, fondazione di cenacoli e circoli di effimera durata. Gabbris, proprio allora si proponeva con certe sue opere che già trascoloravano in una primissima maturità espressiva. Era un periodo di grande fervore e ricerca, che si lasciava alle spalle i giorni non lontani della scoperta della Pop Art, ma anche i multipli di Vedova e le visite periodiche ai molti artisti che continuavano a vivere e lavorare a Venezia, da Guidi a Santomaso.

Negli anni, Gabbris era diventato un artista vero e apprezzato anche da maestri importanti, con uno stile inconfondibile e capace di accogliere nelle sue opere quanto accadeva nel mondo dell’arte. Tra il 1963 e il 1979 le mostre importanti si susseguono e i suoi modi espressivi si rinnovano, anche alla luce di quanto avviene in una cronaca drammatica che diventa storia. È una presa di coscienza attenta, che diventa impegno politico in prima persona. Non si tratta più di cambiare il mondo, ma di contrastare le dittature e i rigurgiti totalitari, vivere giorno dopo giorno nel segno della protesta, che si esprime in raccolte dolenti di opere sui temi che nascono all’ombra della repressione. E tuttavia, anche la passione e la denuncia vibrano di una sottile leggerezza, che non ha mai abbandonato le opere di Gabbris. Nasce, forse, proprio da questa leggerezza una splendida serie di dieci litografie dedicate a Copernico.

Ma, alla fin fine, le stagioni e gli oscuri passaggi di una storia personale, che aveva sconfinato anche nell’impegno amministrativo (e anche qui estro e fantasia), aveva trovato felice e provvisoria risoluzione sui palcoscenici dei teatri, dove la pittura era percepibile dappertutto, ma viveva solamente in funzione di una rappresentazione. La scena diventava, allora, il luogo delle contraddizioni e il punto di fuga, bagliore che si consumava in uno sguardo solamente. E c’era, fin dalle prime scenografie una atmosfera ludica, che si giocava tra ironia e forme leggere fino all’instabilità e alla mutevolezza. La pittura era diventata, sotto le mentite spoglie del disegno, appunto di viaggio, riflessione e confessione, sfogo, indizio di altri percorsi e perfino (ma lo sapeva Gabbris?) divinazione.

Sul finire degli anni Settanta, infatti, c’era stata una svolta, grazie anche al lungo legame di Gabbris con il musicista Franco Piva, talmente persuasiva e impegnativa da lasciare in sospeso la pittura, che pure aveva offerto risultati notevoli. Insomma, era arrivato il teatro. C’era stata la frequentazione di Giancarlo Cobelli e di altri teatranti che, appunto, avevano spinto l’artista a cimentarsi, felicemente, con la scenografia e con la regia. Erano nati spettacoli che avevano lasciato il segno, soprattutto le opere di Galuppi recuperate con Franco Piva, Il mondo alla roversa (che sarebbe andato in scena alla Fenice di Venezia) e, di seguito, Il mondo della luna (che lo avrebbe accompagnato per sempre). Leggerezza, si diceva, che ben rispondeva a quelle trame giocose e volatili, a quelle arie fatte di niente e a quei personaggi che vivevano allegramente nella inconsistenza drammatica. Era una nuova strada, che si intrecciava con la cattedra di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Urbino nel 1980, dove sarebbe rimasto per ben diciassette anni, stabilendosi per lunghi periodi nella città marchigiana, con nuovi incontri e frequentazioni, per non dire del rapporto stretto e specialissimo con i suoi allievi, che era sfociato in una compagnia autonoma e autosufficiente, la “Macchina del vento”, che puntava a una interpretazione “da camera” del teatro di figura, passando da Monteverdi a Gluck. Tanto di quello che sarebbe venuto dopo si era giocato in quei giorni, all’ombra dei torricini e fra le colline lievi decantate da Pier della Francesca e ripercorse da Osvaldo Licini.

Gabbris continuava, tuttavia, a lavorare per il teatro, collaborando con enti lirici e teatri di tradizione, così come con la compagnia Teatrodanza di Roma di Elsa Piperno erede della tecnica Graham e con l’agenzia di produzione Teatro e società di Pietro Mezzasoma. Urbino aveva mutato forma e veste per diventare improvvisamente un laboratorio teatrale, dove le idee erano fresche e i progetti si accavallavano e gli studenti scoprivano il fare e riconoscendo i segni di una vocazione. Gabbris era il maestro e il demiurgo, come appariva subito in un Ballo delle ingrate monteverdiano realizzato con marionette di una bellezza folle, che le ombre esaltavano nel mistero. Le marionette erano arrivate un po’ per ingannare certe rigide serate d’inverno e un po’ come esperimento didattico. Si erano presto configurate con tutta la forza e la suggestione di un teatro altro, capace di arrivare allo statuto stesso della rappresentazione. Personaggi venuti da un mondo perduto, con abiti raffinatissimi e volti misteriosi, quasi un ritorno dal regno dei morti sulle tracce di Orfeo. Le marionette rispondevano alla necessità di un teatro che, qui ed ora, senza spese insostenibili, poteva riproporre con penetrazione e intelligenza il repertorio musicale meno percorribile dalle istituzioni e dagli stabili. Ecco, allora, Monteverdi (Tancredi e Clorinda oltre al Ballo delle Ingrate), ma anche e ancora il Settecento e perfino, ma in tempi più recenti, la peste a Venezia e le Momarie. Quasi per miracolo, le forme, incombenti e difficili, si erano aperte a una ricerca scenografica che alleava la luce all’intelligenza, il gusto per l’artigianato e l’attrezzeria a costumi fantasiosi.

Ormai abitava il teatro e nel contempo paventava di restare prigioniero di un genere, che lui stesso aveva inventato e portato a perfezione. Tanto più che era tentato dalle opere più difficili e, proprio per questo, più vere. Eccolo alle prese con una Lucia di Lammermoor con cambi di scena a vista miracolosi che stupivano e dannavano il regista che era Giorgio Albertazzi. E un raffinatissimo Orfeo ed Euridice di Gluck, che misteriosamente alleava un Settecento perduto nei costumi con l’eterna favola che sfida la morte.

Ecco, per un’opera di vasta popolarità e di indubbia attrattiva come L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, che Gabbris prendeva le mosse da quel “genius loci” che dà un colore particolarissimo alla partitura, ambientando l’opera nella bassa padana, immergendola addirittura in un insolito paesaggio di golena, dove la luce non è mai dorata e il mondo sembra lontano, oltre le striature della nebbia serale. Pochi tocchi registici, allora, per dare avvio alla scena, o collegare fra loro i vari personaggi e lasciar circolare su tutto un umorismo naturale e mai involontario, che all’occorrenza sapeva venarsi di una tristezza madreperlacea.

Nella sua rivisitazione del mozartiano Ratto dal Serraglio, Gabbris aveva cambiato, per così dire, pelle, nel senso che, rispetto al passato, le chiavi iconografiche e ispirative erano altre, sì una rilettura sulle tracce dell’orientalismo dell’Ottocento francese, da Delacroix a Ingres e Géricault, ma con più libertà, in sintonia con un giovane Mozart che aveva arricchito dall’interno il Singspiel, reinventando forme e stilemi, un vero e proprio recupero dell’elemento fiabesco e giocoso.

Nella Butterfly, invece, Gabbris aveva puntato su un realismo paradossalmente poetico. Così la casetta di carta di Cio-Cio-San, in balia come la sua padrona di ogni vento che soffia dalle colline o dal mare, diventava un alto e vuoto magazzino, aperto su un pontile, oppure chiuso da grandi pannelli scorrevoli e traslucidi, ritrovando l’iconografia dimenticata di un Giappone tardo ottocentesco, quasi conradiano, un poco losco e affollato da infaticabili mercanti e agenti di compagnie di assicurazione.

Scene e costumi che la regia trasformava in suggestioni, nate da strutture semplici e ludiche, quasi una raffinata fiera delle meraviglie, che si concedeva i privilegi dell’oro e il gusto per forme geometriche ironicamente mascherate. Così la rossiniana Italiana in Algeri, Le nozze di Figaro di Mozart e più ancora La visita meravigliosa di Nino Rota.

Non meno attenta a un rinnovamento che viene dall’interno l’attività per il teatro di prosa, a partire dalla Mandragola per Gianrico Tedeschi e passando per l’Antigone di Anouilh e molte altre esperienze fino a quell’autonomia da qualsiasi laccio che è stata l’esperienza dei Minimiteatri.

Irresistibile il fascino della commedia del Cinquecento ed è il caso de La Venexiana. Commedia di passione ed erotismo se mai ve ne fu una, La Venexiana dice esplicitamente la brama e il tormento dei sensi come prima non era stato fatto, giocando altresì sulla duplicità: due le donne (una vedova avvenente e l’altra maritata con un vecchio) che desiderano e concupiscono lo stesso uomo, due le serve che le aiutano (una quasi adolescente e l’altra più matura), due gli uomini, il lezioso Iulio che sa fare uso del suo corpo e ben sfruttare il suo fascino e il facchino che sobriamente e ambiguamente anticipa gli zanni dell’arte, due case o meglio due stanze in penombra, in una continua altalena tra interno ed esterno.

Di grande interesse una lettura del Decameron, ancora nel segno della duplicità: da una parte una voluta asincronia, per cui niente di quello che si dice e che succede corrisponde alle premesse; dall’altra l’attesa. Attesa di cosa non si sa bene e non basta a darne conto quello che dicono i personaggi. Attesa e basta, attesa fine a se stessa, quasi uno stato permanente e disperante, che va oltre l’inevitabile Godot beckettiano. Dall’Accademia di Urbino, della quale era stato anche direttore, era passato a quella di Bologna, per concludere poi la sua attività didattica in quella di Venezia.

Nel tempo erano arrivate ricognizioni ricche di suggestione nella poesia, tanto che l’artista aveva sentito il bisogno di tornare a un vecchio e perduto amore della giovinezza, la recitazione, non intesa come esibizione, ma piuttosto invito a scoprire insieme. E come avviene con il trascorrere degli anni, di molti anni, tutto ritorna, passato e presente si scambiano i ruoli e convivono.

C’era poi stata quella immersione nelle amate poesie di Eugenio Ferdinando Palmieri. Una autentica riproposta scenica di versi, che, per loro natura, sono drammatici quanto si vuole, ma pur sempre nati all’interno di uno specifico contesto. E proprio sul contesto aveva lavorato Gabbris, ripulendo versi e personaggi da un crepuscolarismo della memoria, per ritrovare il poeta e l’artista, più che l’uomo, in una sorta di teatrino mentale, in cui si consumano il tempo e i sentimenti. Tre attori e un pianista che arrivavano in scena come i sei personaggi pirandelliani, in una luce aranciata attraversata da zone d’ombra, così che i volti sparivano di volta in volta nel mistero e nel silenzio, per poi riaffacciarsi insieme con una manciata di versi, lanciati per aria come coriandoli in una cavalcata attraverso gli anni Trenta, fra parole e canzoni e danze lievi e ironiche.

Poi, improvvisamente, dopo trent’anni di teatro, in un gioco complicato di coincidenze e appuntamenti mancati, era tornato alla pittura e alla grande, con una serie di opere di imponente formato, in cui riapparivano, sia pure simbolicamente, molti momenti importanti della sua storia, compresa la morte tragica del figlio, che nella sua immaginazione era diventato un angelo capace, ogni volta, di insegnargli la strada. Fondi scuri e addirittura neri, sui quali ricreava forme giocate sulla teoria dei colori di Goethe, sulla complementarità e sull’opposizione. Ogni forma e ogni elemento, in realtà, erano una storia, segreta, quasi un’autobiografia, in cui anche il dolore (che non lo aveva mai risparmiato) veniva trasfigurato. Un formicolio di personaggi appena evocati attraverso forme diverse e composite, ma sempre in una irrinunciabile bidimensionalità, così che la pittura rimandava al disegno ritrovandone la felicità creativa, ma cancellandone al tempo stesso la dipendenza dal segno nell’insistenza sugli acrilici e sui pastelli, che, appunto, ritrovavano la felicità del colore. Contava in queste opere (La macchina del cemento in un luogo indifeso, Macchina volante dalle parti di Pellestrina. A volo di uccello in laguna, Lasciare Venezia, Verso una nuova Itaca, Viaggio in comitiva) l’evocazione diretta,

ma anche un più sottile intreccio di memorie e umori, così che libertà e pienezza, felicità e tristezza, giovinezza e vecchiaia si mescolavano in continuazione, come nella vita. E, ancora, il gusto del racconto, ma senza più scansioni temporali, in una sorta di fuga continua e continuo ritorno di tempi e personaggi e oggetti e macchine. Né mancava quel gioioso lavoro sui legni di recupero, ritrovati sovente là dove il delta si spinge con spiagge e spiaggette improvvise e bianchissime verso il mare. E l’odore di mare e di sabbia ancora si avvertiva, più nella scansione di forme che nascevano da se stesse che non dall’aria. Le composizioni, curiosamente, ritrovavano il segno e il gioco dell’abbozzo. Infine, altri legni, quelli dell’albedo e dell’alchimia, ridipinti e laccati con colori purissimi e intensi, che davano speciale luce all’alternanza di geometrie lucidissime e fortemente pensate, che trovavano forse origine e perfino sostanza in altre due opere, che evocavano una terza media del 1950 e quei cubi e sfere e piramidi che il primo e lontano maestro, Angelo Prudenziato, usava per far disegnare i suoi allievi, insegnando, con parole semplici e soprattutto esempi pratici, che dalla realtà si poteva giungere, sperimentando, alla metafisica.

Contava nell’opera e nella vita quotidiana di Gabbris il progetto. Si passavano settimane e mesi, consumando serate e notti, a progettare cose che poi, quando venivano realizzate, erano ben diverse da come le si era pensate. Il progetto era un modo per illudersi e credere ancora, per chiarirsi o, all’opposto, confondersi le idee. Un modo per essere amici e, quando capitava, collaborare. Tutta la vita di Gabbris pullulava di progetti, come se il tempo non avesse un termine. E quanti smarrimenti e nuovi progetti negli ultimi tempi, amici ritrovati e il gusto, sempre, del gruppo ristretto e pellegrino a parlare d’arte e poesia e filosofia. Tra i progetti c’era perfino un fatale ritorno a Garcia Lorca. Ma c’era, con una maschera digrignante, anche la malattia che lo aspettava al varco.

In attesa di ritrovarlo, Gabbris, chissà quando e chissà dove, si può bisbigliare con Rilke:

“tacito amico d’infinite lontananze senti
come ancora il tuo respiro moltiplica gli spazi.
Quel che ora ti consuma sarà poi alimento alla tua forza”.

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